27 Feb Viaggio della memoria. Racconti di viaggio
23 Febbraio 2023, Mauthausen
Direzione campo di Mauthausen
Otto e venti, ritrovo al pullman. Direzione campo di Mauthausen.
A pochi chilometri dalla città di Linz, nel paesino di Mauthausen, sorge una delle manifestazioni più atroci della storia del XX secolo del nostro continente .
La fortezza di Mauthausen, perché è così che appare agli occhi dei visitatori, si erge nella sua freddezza su una collinetta, visibile dal vicino paesino e dalle fattorie contadine che ne costellano i dintorni. In un ambiente definibile paesaggistico, tra le colline della campagna austriaca, nell’umanità e nella naturalezza del mondo in cui viviamo, si staglia uno degli esempi più emblematico della disumanità della nostra specie.
Il pullman si ferma sotto le alte mura del campo di concentramento. Mura costruite dai primi detenuti arrivati dal campo di Dachau. Mura al di là delle quali non esiste più la vita.
Wolfgang, la nostra guida, ci mostra il lato del campo che nessuno ha visto o immaginato: l’area riservata alle SS. Sono aree privilegiate, la cui esistenza rimane inconcepibile agli occhi di chi ha studiato la malvagità e l’atrocità dello sterminio.
Come potevano quegli uomini fare un bagno in piscina mentre al di là di un muro persone come loro morivano fucilate? Come potevano quegli uomini giocare a calcio mentre nella cava di fianco a loro uomini perdevano la vita sollevando chili e chili di pietra di granito? Come potevano quegli uomini aver scelto di diventare SS, sapendo quanto fosse disumano il loro lavoro? Martina Marasi 5R
Paura. Umanità. Facilità.
Un uomo diventava SS perché aveva paura di finire al fronte, diventava SS perché poteva stare più vicino a casa, diventava SS perché nel momento della scelta sembrava la cosa meno peggiore. All’esterno dalle porte di ingresso del campo si trova la vera malvagità. Quello che si vede fuori dalle mura è la devastazione dell’essere umano.
Il campo sanitario, meglio definibile come ‘campo della morte naturale’, si trova poco più in basso della collina della fortezza. Lì i malati venivano lasciati morire, senza essere toccati. Morte per malattia.
La cava di granito, dove i deportati erano costretti a disumani lavori forzati per la realizzazione dei piani di Hitler, si trova sotto il campo. Per raggiungerlo bisogna percorrere una lunga e ripida scala di roccia. Una scala definita dai deportati “scala della morte”. Se cadevi, con il masso di granito sulle spalle, morivi tu e con te tutti quelli che stavano dietro. Morte per incidente sul lavoro.
Wolfgang ci legge una denuncia di una contadina la cui fattoria si trova vicino al campo. La donna si lamenta dicendo di non poter più sopportare la vista della morte. La scrive dopo tre anni che la macchina dell’omicidio era entrata in funzione. La scrive, non perché smettano, ma perché cambino luogo in cui farlo. Lo scrive perché non vuole più vedere.
Nessuno si è opposto a quello che succedeva. Martina Marasi 5R
I Memoriali
Fuori dalla porta d’ingresso del campo di internamento si trovano i memoriali costruiti dalle varie nazioni. Memoriali che urlano “non è colpa mia!”, invece che “mi dispiace! Farò in modo che non succeda più!”
Davanti al memoriale abbiamo capito che in guerra non esistono vittime e colpevoli. Tutti sono vittime e tutti sono colpevoli. I tedeschi erano colpevoli perché hanno iniziato la guerra. I nazisti erano colpevoli perché avevano costruito l’ideologia. I contadini, i cittadini, i macchinisti dei treni, gli impiegati delle stazioni erano colpevoli perché non hanno fermato la catena di distruzione della specie umana. I vicini di casa, i poliziotti, gli amici, i colleghi erano colpevoli di egoismo. “Meglio loro che me!”
I consigli degli ebrei erano colpevoli di aver partecipato alla selezione dei morti. “Devo salvarmi, muori tu!”.
Nessuno si è opposto a quello che succedeva.
Tutti colpevoli eppure tutti vittime. Martina Marasi 5R
Un uomo senza umanità
Dentro i campi morivano uomini, donne e bambini, con alle spalle famiglie e amici. Morivano coloro che non credevano nel regime e avevano provato a combatterlo. Morivano quelli che avevano aiutato un paio di ricercati a nascondersi
Morivano i padri per aver protetto i figli.
Moriva chi non aveva trovato lavoro, chi non aveva una casa, chi credeva nel Dio sbagliato.
Vittima era chi veniva convinto che tutto ciò fosse normale. Non si è più umani quando si decide che un altro uomo come noi deve morire. Un uomo senza umanità è un uomo morto.
Fuori dalle mura di Mauthausen sentivo già le gambe cedere dalla vergogna. Anche io, a ottant’anni dalla guerra, mi sento colpevole. Martina Marasi 5R
Riuscire a vedere oltre il silenzio e il vuoto
Una grande porta di legno separa il fuori dal dentro. All’interno è rimasto poco di quello che fu, eppure è facile visualizzare tutto. A sinistra le baracche, affiancate le une alle altre, sovraffollate di gente. A destra il muro del pianto, a cui venivano legati i deportati sovietici nudi e bagnati a morire di freddo. Al centro il cortile per l’appello.
Entrata nel campo l’aria sembra rarefarsi, appesantirsi. Mi si contorce la pancia, mi si irrigidiscono gli arti.
Wolfgang ci porta nelle docce, quelle con l’acqua, quelle utilizzate per lavare i detenuti appena arrivati al campo. Arrivavano lì, venivano rasati, spogliati, igienizzati e lavati. Veniva cancellato il loro odore, il loro sapore, la loro essenza. Gli veniva tolto il nome e assegnato un numero. “É più facile eliminare un numero che uccidere una persona” dice Wolfgang.
Non ci sono più uomini lì dentro, ma mucchi di carne e ossa diretti verso la morte.
Dei medici sceglievano chi moriva subito e chi passava allo step successivo.
I detenuti venivano poi mandati nella ‘zona di quarantena’ per “abituarsi alla vita del campo”. Se ci si concentra, li si vede correre nudi nel campo per raggiungere velocemente l’area e allontanarsi per quanto possibile dal nordico freddo pungente. Niente coperte, niente letti, niente riscaldamento. In inverno si raggiungevano i 25° sotto zero. Chi sopravviveva a questa fase poteva vivere nel campo.
Le baracche in legno sono state distrutte dalle truppe degli alleati che hanno liberato il campo, per evitare che si originassero epidemie. Quelle che vediamo sono delle ricostruzioni, ma le sensazioni rimangono troppo reali. Sono vuote eppure riesco a vedere i letti a castello stipati l’uno accanto all’altro. Centocinquanta persone per stanza quando il campo era stato aperto, più di mille alla sua chiusura.
Altro simbolo della malvagità del sistema la vediamo nelle stanze dei kapò, detenuti privilegiati, che avevano ottenuto questi privilegi voltando le spalle a coloro che erano stati disumanizzati come loro.
“Meglio la loro morte che la mia.”
Wolfgang ci racconta le storie dei deportati di Mauthausen. Scene abominevoli. Scene che ti strappano l’anima. Martina Marasi 5R
Come faccio a raccontarlo?
Quando più tardi sono scesa nell’area adibita alla morte diretta, credevo di non essere più in grado di respirare.
Ho visto le foto dei morti del campo, tanti italiani e tanti parmigiani. Ho letto i nomi di coloro che non sono sopravvissuti, una stanza intera di nomi. Avevo paura a stare lì dentro. Puro terrore che arrivava da non so dove di preciso.
Ho visto le camere a gas e i forni crematori e la prima cosa che mi sono chiesta è stata: “Come faccio a raccontarlo a chi non è venuto con noi? Le sensazioni non si possono spiegare.”
Ho sentito alcune signore vicino a me dire “Non riesco a guardare” mentre si trovano davanti alla camera a gas. Mi chiedo quante altre persone prima di loro lo hanno fatto: voltarsi dall’altra parte, non riuscire a guardare.
Io voglio vedere. Devo vedere con i miei occhi per imprimerlo nella mia mente, come un tatuaggio permanente nei miei ricordi. Se so, non voglio dimenticare.
“Non ce la faccio, devo uscire di qui. Mi manca l’aria” dicono ancora. L’aria è pensante, è vero. Ha un odore che non ho mai sentito e che riuscirei a descrivere solo con la parola ‘soffocamento’.
Vedevo nella mia mente centinaia di persone incastrate, ammassate in quella minuscola stanza. Nude, spogliate sia dei loro vestiti che della loro essenza. Sento le urla, i pianti, il rumore della disperazione. Sento il caldo dei corpi ammucchiati e i brividi del freddo provocato dalla paura.
L’aria è pesante, è vero, ma perché è piena di verità. E la verità fa male.
Le pareti sembrano riportare i segni dei corpi, nonostante siano lisci e puliti. Per terra sembra di vedere le impronte dei piedi nudi sul pavimento, ma non c’è niente. La stanza è vuota, non c’è nessuno. Eppure non c’è più spazio. Si soffoca.
Ogni persona che è passata di lì in qualche modo è rimasta lì. Se ci si concentra si riescono a vedere i loro volti, si riesce a immaginarli. Uomini e donne come me e te, le guance scavate dalla fame, le braccia rovinate dal lavoro, gli occhi segnati dall’impossibilità di dormire e dalle lacrime. Gocce di linfa vitale che se ne vanno man mano, insieme alle speranze, ai ricordi, ai desideri.
Non hanno avuto possibilità. Non gli è stato dato il permesso di uscire e vedere un’ultima volta il cielo.
Non ho pianto durante la visita del campo. Non ne avevo il diritto. Non riuscivo a trovare le forze per piangere. Martina Marasi 5R
Vedere la morte per capire la vita
Io non ho vissuto quelle che è successo lì dentro. L’ho immaginato, sì. L’ho visualizzato, sì. Ma non lo ho vissuto. Non credo sia giusto piangere senza provare la sofferenza che ti fa uscire le lacrime.
Davanti al Memoriale degli italiani abbiamo ascoltato indirettamente la voce dei nostri concittadini. Parmigiani deportati a Mauthausen che hanno avuto la fortuna di sopravvivere e raccontare la loro storia. Ragazzi, studenti come noi. Voci di un passato che sembra più odierno dell’oggi.
Oggi, nella prima tappa del nostro viaggio, ho capito che sono partita non solo per scoprire cosa si celava dietro il filo spinato. L’ho fatto per capire cos’è la vita, per capire perché si vive. Mi è venuto da chiedermi cosa avessi vissuto finora.
Un ragazzo del Bocchialini, durante la condivisione delle riflessioni, ha detto una cosa che mi ha spiazzato e mi ha fatto ragionare allo stesso tempo. “Entrando nel campo mi sono sentito vivo” ha detto. Come se solo vedendo la morte che ha pitturato il campo si potesse capire che siamo vivi. Martina Marasi 5R.
Il viaggio della memoria impone rigore
Sarebbe stato tutto così piacevole.
Un gruppo di giovani ragazzi per qualche giorno in giro per l’Europa, nuove esperienze e nuove conoscenze…
Ma mentre una gita di classe infonde spensieratezza, il viaggio della memoria impone rigore.
Rigore perché Mauthausen è più di un museo: è un memoriale ed in quanto tale assume importanza solo nel momento in cui tu riconosci quel valore. Il ricordo non vive nelle pietre dei muri di Mauthausen, ma nella sensibilità di ognuno di noi.
Ogni ricordo è unico perché ogni persona è diversa. Ognuno di noi custodirà qualcosa di particolare; un’immagine di un fiore, un odore particolare, il colore delle mura, la sensazione del freddo sulla pelle e del fango sotto le scarpe. Io mi porto a casa delle parole e una domanda.
Il social nazionalismo è un sistema in cui la maggior parte dei tedeschi ci è finita per sbaglio. Non possiamo dare la colpa a nessuno perché l’alternativa era sacrificare sé stessi. Nessuno si è fatto avanti. E noi non abbiamo colpa delle ingiustizie della società moderna, ma cosa stiamo facendo per cambiare? Giorgia Frascari 5I
Indifferenza
Dietro agli oltre 90.000 morti di Mauthausen c’è anche questo; un senso di accettazione, di velata partecipazione all’orrore dello sterminio nazista. Anche solo la distanza emotiva è complicità. Il sentirsi “sollevati” dal fatto che queste vicende non ci riguardano non ci rende tanto diversi da chi, negli anni di dittatura nazista, ha preferito non intromettersi.
La lettera inviata dalla proprietaria della fattoria vicina alla cava di Mauthausen, in cui la signora denunciava le vicende disumane dei deportati chiedendo però che queste non siano più visibili a suoi occhi, è simbolo di una coscienza che cerca di andare nella giusta direzione ma che al contempo prende le distanze dal dolore altrui, dalla terribile vita dei prigionieri che sollevavano blocchi pesantissimi di granito per 60 ore a settimana.
Vedere da vicino il campo, le baracche, il forno crematorio e la camera gas non può e non deve lasciare indifferenti.
Vincenzo Capuano 5F